mercoledì 31 dicembre 2014

St. Vincent, recensione allibita

Allibisco e in parte mi arrabbio un po’ con il pubblico italiano che per motivi che davvero non riesco a capire ha rifiutato un film come St. Vincent, distribuito dalla Eagle Pictures con un centinaio di copie senza ricavarne neanche quello che potrebbe essere definito un incasso decente: al momento, non ha superato neanche gli 80,000 euro. Ieri l’abbiamo visto in una sala con un’altra coppia (quindi eravamo un totale di quattro presenze) ed alla fine della proiezione ce lo siamo detti in faccia: non sanno cosa si sono persi. Perché St. Vincent non è un film di nicchia, né intellettuale, semplicemente è troppo intelligente e quando il pubblico natalizio preferisce la banda di Neri Parenti (seppur con minor affluenza, e meno male) capisco che non abbiamo scampo e, magari, St. Vincent avrà migliore fortuna nell’home video o sul satellite: ma la visione ne vale veramente la pena. Quindi tolta l’inutile indignazione dell’indifferenza del nostro pubblico, bisogna dire che l’unica ragione d’essere di St. Vincent è ovviamente Bill Murray. La storia dove giganteggia è molto tradizionale, quasi natalizia e in parte zuccherosa, ma quando il “cattivo” di turno è Murray capisci che hai di fronte un film – natalizio? - sopra la media: lui è il burbero vicino di una famiglia composta da una mamma in procinto di divorziare e suo figlio Oliver, un bimbo curioso e intelligente ma solitario e indifeso. Siccome la mamma lavora in ospedale ed è sempre in turno, viene spontaneo chiedere a Vincent di fare da baby-sitter al ragazzino: non sembrerebbe una buona idea siccome le abitudini di Vincent sono quelle di un vecchio ubriacone, fra corse ai cavalli e compagnie discutibili, come uno strozzino e una prostituta russa; eppure Vincent ha una sua storia che non vuole raccontare, né ascoltare quelle degli altri, e il piccolo Oliver la vuole scoprire: come compito in classe, gli viene chiesto di raccontare la vita di una persona che gli è vicina che reputa un vero Santo. Oliver scopre che da otto anni mantiene la moglie malata in una lussuosa casa di riposo nonostante non ha granché nel portafoglio, ha combattuto nella guerra del Vietnam e ha salvato due suoi ufficiali, e alla sua maniera aiuta la prostituta nel difficile e imminente parto (un problema, quando balli in lapdance con il pancione..). Per Oliver, il burbero Vincent è un Santo, perché fa sacrifici per le persone anche se non vuole ammetterlo, e lo ha aiutato nel sentirsi più sicuro e a difendersi – facendogli guadagnare quello che sembra essere il suo migliore amico, dopo avergli rotto il naso a scuola – e sente di volergli bene.  
Vincent era il personaggio alla Walter Matthau che mancava a Bill Murray: vorresti portartelo a casa e metterlo in giardino, tranquillo con il walkman a canticchiare (male) Bob Dylan. La sua faccia ha una forza espressiva incredibile, e rimane uno dei migliori della sua generazione. Il film fa spesso ridere anche perché Murray ha come spalla un bambino attore al suo esordio davvero sorprendente, Jaeden Lieberher, protagonista della parte più sentimentale del film e che, diciamolo, rischia di affondarlo pericolosamente. Insomma, St. Vincent non dice molto di originale, ma se volete vedere un film dove Murray non vincerà l’Oscar ma forse il Golden Globe, perché con quella faccia tragica riesce ancora a far ridere e a consegnarci una prova d’attore superba beh, questo è il film. Che, ripeto, non è il classico film “carino” di Natale.